Progetto Italia Federale

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a cura di Francesco Paolo Forti
Federalismo 
tra sussidiarietà 
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 Ultimo aggiornamento: Gennaio 2002
 
Federalismo tra sussidiarietà e devolution
Marco BOCCACCIO
Dipartimento di Economia
Università degli studi di Perugia
Luglio 2000 (testo presentato al Convegno sulla Finanza locale - ASSISI, 1.7.2000)
Introduzione, Il federalismo come duplice movimento, Sussidiarietà e devolutionL’opzione di exitConclusioni, Note

Introduzione

Il termine federalismo ha pressoché soppiantato nel linguaggio economico ed in particolare in quello degli scienziati delle finanze la più tradizionale locuzione di finanza locale. Questo mutamento di linguaggio sembra che sia dipeso, tra le altre, da due ragioni in particolare. La prima si può far risalire all’abitudine ormai consolidata di utilizzare la traduzione letterale di parole inglesi a prescindere dai diversi contesti istituzionali e dottrinali nei quali sono nate e vengono utilizzate, quindi anche dal differente significato che possono assumere. Per esemplificare ulteriormente questa abitudine si può pensare, sempre circoscrivendo l’orizzonte alla stessa scienza delle finanze, all’utilizzo sinonimico delle parole "tassa" e "imposta" laddove nel lessico tradizionale italiano tali concetti corrispondono a fenomeni economici diversi e ben definiti tecnicamente. La seconda delle ragioni cui in precedenza si è accennato riguarda la commistione e reciproca influenza che si verifica tra linguaggio della politica e linguaggio dell’economia. Il termine federalismo si presta bene al linguaggio politico perché permette di riassumere con un’unica espressione fenomeni e manifestazioni istituzionali molto diversi tra loro, rendendo possibile in prima battuta il confronto ed il dialogo sui termini generali del problema, un dialogo che altrimenti verrebbe verosimilmente reso molto difficile se non impossibile qualora le parti esprimessero preferenze per forme di attribuzione verticale delle competenze molto specifiche e caratterizzate. Il federalismo costituisce pertanto un denominatore comune sufficientemente generico e sostanzialmente neutrale. Si può dire che rappresenti una soluzione al problema delle così dette "decisioni di secondo grado", quelle decisioni che riguardano il costo che si deve sopportare per giungere ad una decisione ulteriore; in alcuni casi l’impossibilità (o l’eccessivo costo) di ottenere un determinato risultato in via immediata porta a trasferire nel tempo o ad un altro soggetto quello stesso potere decisionale. La posposizione della decisione (quindi la riduzione dei costi della stessa) può appunto prendere la forma di una formulazione generica dei termini della questione per affrontare in seguito i punti specifici.

Sempre sotto il profilo politico, infine, il generico termine federalismo ha un ulteriore vantaggio, quello di trasmettere in via immediata l’idea che attraverso di esso si attui una maggiore libertà di espressione di valori locali comuni rispetto a quanto non avvenga con un governo centralizzato; questa capacità comunicativa non sembra funzioni in eguale misura se ci si accontenta della (in qualche modo) arida disquisizione sulle questioni relative alle competenze di entrata ed uscita, o sui criteri di soddisfacimento delle preferenze individuali o della massimizzazione delle funzioni di utilità, o ancora sulle asimmetrie informative e i rimedi per i così detti spillover effects, tutte questioni tipiche della terminologia economica.Questo può addirittura condurre a domandarsi quanto possa essere utile la stessa letteratura economica sul federalismo fiscale per comprendere appieno il problema. In essa infatti, almeno limitandosi al così detto "teorema di Oates", l’idea centrale è essenzialmente quella della dimostrazione di come un sistema decentrato possa comportare un miglioramento paretiano rispetto ad un sistema centralizzato, permettendo un migliore soddisfacimento delle preferenze. In realtà, la condizione applicata a quello che parte della letteratura chiama criterio di Wicksell-Buchanan è meno restrittiva di quella paretiana ma la logica interpretativa può essere considerata la stessa. Si tratta di applicare un principio generale, quello della efficienza di un sistema di decisione decentrato. La questione è stata affrontata nell’ambito dell’analisi strumenti-obiettivi risalente a Tinbergen: Leif Johansen afferma che le ragioni per il decentramento si verificano allorché il raggiungimento di un obiettivo dipende dall’utilizzo di un solo strumento o un gruppo limitato di strumenti il cui utilizzo non incide, se non in maniera pressoché irrilevante, sul raggiungimento di ulteriori obiettivi. In questa impostazione i margini per il decentramento sembrano comunque piuttosto ridotti.

In ogni caso, due limiti sembrano derivare da questo approccio: l'uno è appunto quello di essere unidirezionale (per il fatto che si occupa solo del miglioramento che può apportare il decentramento ma non altrettanto delle eventuali potenzialità di miglioramento paretiano che giustifichino la federazione di gruppi precedentemente separati); il secondo è quello di definire le condizioni di ottimo ma non i termini del processo di avvicinamento dell'ottimo stesso. Secondo alcuni quest'ultimo problema esulerebbe dall'analisi puramente economica coinvolgendo profili politici e filosofici. In realtà si tratta di un atteggiamento caratteristico dell’analisi neoclassica concentrata piuttosto sulle condizioni di equilibrio che sul cammino verso l’equilibrio, il che la espone a diverse critiche, tra cui quella di partire da presupposti troppo restrittivi ed irrealistici. Sotto il profilo metodologico la questione è stata acutamente affrontata in un contesto più generale da Harold Demsetz che stigmatizza l’utilizzo di un approccio del tipo nirvana (confrontare un’istituzione con un modello teorico) rispetto a quello di comparazione istituzionale.

Detto tutto ciò, per avere un’idea della capacità di sintesi di questo concetto ed avere al tempo stesso la percezione della realtà multiforme, mutevole e brulicante che si muove sotto il termine federalismo, è sufficiente limitarsi a una breve constatazione: secondo un Autore, ad esempio, a quel termine corrisponderebbero almeno ben 267 forme diverse di organizzazione sovra ordinata di poteri, laddove per un altro si possono definire 17 possibili configurazioni principali di enti territoriali sovraordinati, anche se non tutte potrebbero dirsi federali in senso stretto. Infine, e più enfaticamente si è anche parlato da parte di qualcuno di una varietà infinita di forme di federalismo. Nella pratica, infine, il fenomeno ha ormai superato i confini che potremmo definire tradizionali, gli Stati Uniti e l'Unione Europea per limitarsi ai due casi più macroscopici, ma ha investito tanto i paesi in via di sviluppo come l'area dei paesi in transizione dall'economia di piano a quella di mercato, con l'esempio più evidente nell'ex Unione Sovietica,da qui la crescita d'interesse ed importanza delle questioni che lo riguardano. Quanto detto dovrebbe essere sufficiente a comprendere come il dibattito sul federalismo abbia di conseguenza assunto forme ed accenti diversi; a volte si è trattato di un dibattito implicito, nel quale il termine federalismo non è stato utilizzato ma analoghi problemi si sono presentati. A tale proposito si può pensare ai mutamenti indotti dal ruolo crescente assunto da alcune organizzazioni internazionali, e forse l’esempio più evidente è quello del WTO, che definiscono regole e standard sempre più particolareggiati e vincolanti alle diverse entità nazionali, la cui sovranità finisce per essere sempre più compressa se non in alcuni casi (almeno in parte) espropriata nel contesto della così detta globalizzazione.

Il federalismo come duplice movimento

Nell’attuale situazione ci si trova di fronte ad un duplice movimento di realizzazione del federalismo che, come spesso accade, non ha seguìto un modello di riforma ben preciso ma si è attuato passo per passo, secondo un criterio che richiama quello dell’ingegneria a spizzico o "gradualista" elaborato dal filosofo Karl Popper; si è proceduto infatti attraverso provvedimenti non sincronici,di portata diversa, spesso rapsodici e non coordinati tra loro, altrettanto spesso fonti di nuove questioni e problemi, a volte, infine, dettati dal sorgere di qualche imprevisto.

Il primo movimento è ovviamente quello "verso l’alto", e mette in evidenza l'aspetto del federalismo che potremmo dire corrisponda alla sua accezione originaria, quella di unione di enti precedentemente separati: si attua con il trasferimento di poteri e porzioni di sovranità dagli Stati nazionali all’Unione Europea, i cui cardini sono il Trattato di Maastricht e in particolare la creazione della Banca Centrale Europea. Si assiste pertanto all’ interno di questo movimento ad un duplice sforzo: da un lato quello diretto principalmente al trasferimento in blocco della politica monetaria dagli Stati membri all’Unione Europea; dall’altro quello relativo all’utilizzo di vincoli all’azione degli Stati membri che sono complementari alla piena operatività della stessa politica monetaria, vincoli che incidono inevitabilmente in primis sulla politica fiscale, anche se le competenze di quest’ultima rimangono in linea di principio nelle mani dei governi nazionali. La politica fiscale mantiene il massimo grado di autonomia a livello nazionale per quanto riguarda la tassazione e viene compressa per ciò che riguarda la spesa al fine di evitare che i singoli paesi si comportino da free riders nei confronti dell'Unione. La questione più rilevante con riferimento alle relazioni tra politiche di tipo diverso la cui competenza è attribuita a soggetti che sono posti a differenti livelli di governo si manifesta nell’ambito della realizzazione dell’obiettivo delle politiche di stabilizzazione. In presenza di shocks economici i cui effetti si riverberano in maniera asimmetrica sulle diverse economie nazionali, gli Stati membri potrebbero in teoria rispondere con il ricorso allo strumento della politica fiscale, ma il Patto di Stabilità riduce di molto le possibilità di manovra in questo senso. Il rimedio anticiclico si può trovare a livello centrale, assumendo quindi la forma di stabilizzatori automatici sul tipo dei sussidi di disoccupazione o sotto forma di trasferimenti tra diverse regioni dell’Unione, provvedimenti che hanno però carattere redistributivo e dovrebbero essere, in un regime democratico, di competenza di organi elettivi. L’introduzione della moneta unica quindi determinerebbe quale sottoprodotto per via "spontanea" un progressivo accentramento degli strumenti fiscali ed in questo senso finirebbe per stimolare anche il progressivo rafforzamento del ruolo di alcuni organi, segnatamente quelli tipici di decisione democratica, rispetto ad altri; nel sistema europeo si spiegherebbe anche in tal modo l’evoluzione del Parlamento Europeo, da un ruolo che inizialmente era essenzialmente consultivo ad uno sempre più decisionale.

La moneta è, almeno formalmente e per ciò che riguarda la prima fase del processo di integrazione, l’unico bene tra quelli che la teoria economica definisce come beni pubblici puri ad essere indiscutibilmente di competenza esclusiva dell’Unione Europea, anche se nel Trattato di Amsterdam si sono poste le basi di un maggior coordinamento per ciò che riguarda tanto la difesa che la sicurezza, proseguendo sulla strada di alcune indicazioni contenute nel Trattato di Maastricht nel cui preambolo si parla dell’intenzione da "attuare una politica estera e di sicurezza comune che preveda la definizione a termine di una politica di difesa comune, che potrebbe successivamente condurre ad una difesa comune".

In un contesto del genere è peraltro significativo notare come lo stesso Trattato di Amsterdam si occupi di un concetto che vedremo essere centrale nel dibattito sul federalismo, quello della sussidiarietà, e lo fa dedicandole un protocollo che consiste sostanzialmente nell'applicazione di conclusioni raggiunte sul tema in precedenza, adottando al proposito un taglio particolare. Nel paragrafo 9, infatti, impone alla Commissione di tenere in dovuto conto i carichi (intesi sia in senso amministrativo che finanziario) che verrebbero a determinarsi in seguito all’attività dell’Unione, unendo però nella stessa previsione sia i singoli cittadini che gli stati nazionali, gli operatori economici come le autorità locali, mettendoli quindi tutti sullo stesso piano senza priorità, senza quindi quella presunzione che costituisce il nucleo minimo del principio di sussidiarietà com’è tradizionalmente inteso. Inoltre, lo stesso rapporto della Commissione sull’attuazione del principio della sussidiarietà viene sì sottoposto al Comitato delle regioni, ma solo in via consultiva; le autorità locali, pur essendo chiamate ad esprimersi su di una serie di argomenti più ampia che in passato, hanno di fatto solo uno strumento di voice.

Pur limitandosi a quanto detto risulta chiaro che il modello europeo presenta delle differenze rispetto ai modelli tradizionali che potremmo chiamare di federalismo "maturo". Si assiste ad una "scissione" della sovranità e trasferimento di uno solo dei suoi attributi al livello sovranazionale; la moneta comune ha il compito di tirare il resto dell'unificazione; lo stesso riferimento al concetto di sussidiarietà nonostante sia ricorrente ed esplicito apre la porta alla necessità di maggiori chiarimenti, perché poi la sua introduzione dovrebbe avere il significato di accentuare il controllo dal basso il che non sembra poi tradursi nella pratica.

Ad ogni modo, una delle peculiarità del federalismo europeo che può aiutare a spiegarne l’evoluzione si manifesta nel fatto che alla base di esso esiste una forte disomogeneità a livello locale per quanto riguarda alcuni beni pubblici puri (tra i quali, si ripete, la difesa e la sicurezza), il che avrebbe imposto per ragioni di opportunità politica una trattazione successiva di questi problemi. Questo appare curioso, dal momento che i beni della difesa e della sicurezza nella spiegazione tradizionale costituirebbero il nucleo centrale minimo che motiva il sorgere di una federazione, sia nel significato che le si voglia dare di un rapporto più ristretto tra i suoi membri (federazione), sia in quello in cui il loro legame sia meno permeante (confederazione). Il processo di integrazione europea parte quindi in una maniera che è in un certo modo squilibrata, dalla scissione di quelle competenze che di solito nel momento della federazione sono attribuite in maniera congiunta al livello centrale e sovraordinato di governo e ciò porta con sé ulteriori conseguenze. Rispetto alle impostazioni usuali, altre peculiarità possono essere notate. Nel rapporto Padoa -Schioppa del 1987 in riferimento all’attuazione del principio della sussidiarietà si vede in prospettiva un rafforzamento a livello europeo della politica monetaria (che sarebbe effettivamente avvenuto), di quella regionale e di quelle politiche che sono "destinate a rafforzare la competitività dell’impresa europea" (p.36). Viceversa le politiche sociali dovrebbero essere di competenza degli Stati nazionali. Quest’ultimo punto è in contrasto con la posizione tradizionale della teoria economica, e si può citare al riguardo l’opera fondamentale di Richard Musgrave, che prevede il decentramento per ciò che riguarda la sezione allocativa del bilancio ma ritiene che quella distributiva e di stabilizzazione possano essere meglio gestite a livello centrale. Nel Trattato di Maastricht invece un punto centrale diventa quello delle politiche sociali, e questo è stato considerato da alcuni uno dei passaggi decisivi nel processo di mutamento della configurazione iniziale del federalismo europeo dandole un carattere sempre più marcatamente unitario e centralistico ed attenuando i tratti più genuinamente federalisti. Utilizzando una diversa terminologia, si sarebbe passati da un federalismo per trasferimento (dal basso) ad uno la cui eventuale delega di poteri dipende dall'alto.

Qualunque sia il fondamento che si vuole attribuire a questa tesi, rimane il fatto che la posizione "intermedia", sia nel frazionamento delle competenze che nei tempi diversi di trasferimento, ha avuto diverse conseguenze, la principale delle quali ci sembra sia quella di avere reso ancora più rilevante la scelta del metodo attraverso il quale sviluppare il federalismo.

Ciò si avverte in maniera specifica quando si affronta la questione del coordinamento tra sistemi d'imposta: la questione fondamentale ha riguardato il dibattito, ancora in corso, tra armonizzazione e concorrenza fiscale. La concorrenza tra imposte perseguirebbe il fine, tipico del decentramento, di permettere un controllo maggiore da parte delle comunità locali sui livelli di governo superiori.Sarebbe un antidoto contro le distorsioni politiche. Il principio concorrenziale realizzerebbe quindi in maniera migliore il principio della sussidiarietà. Per i suoi sostenitori, però, esso avrebbe l’ulteriore vantaggio di incentivare una migliore allocazione delle risorse economiche. Questo punto è contestato dai fautori dell’armonizzazione i quali affermano che soltanto in presenza di particolari condizioni, ad esempio di perfetta elasticità dell’offerta politica, la concorrenza fiscale non determina distorsioni nell’allocazione di lavoro e capitale. Ancora secondo Musgrave (1959) il decentramento di quella che egli chiama allocation branch del bilancio pubblico permetterebbe di soddisfare meglio le preferenze individuali a costo di una possibile misallocazione delle risorse perché capitale e lavoro rispondono a differenziali d’imposta e non alla semplice efficienza produttiva. In questa visione evidentemente si determina una frattura netta tra settore pubblico e settore privato. La coincidenza dei due tipi di effetto (riduzione di distorsioni politiche ed economiche) potrebbe giustificarsi invece qualora tale frattura venga risanata come sembra avvenire nell’ambito di un modello di finanza pubblica simile a quello elaborato da De Viti de Marco nel quale la stessa attività dello Stato dev’essere considerata come fattore di produzione per le imprese, quindi le imposte vanno trattate come componente dei costi alla stessa stregua della remunerazione degli altri fattori, e sottoposte alle stesse regole di efficienza. In termini pratici il punto riguarda essenzialmente le imposte dirette dal momento che per le imposte indirette il processo di armonizzazione è già ampiamente in atto.

Il secondo movimento, quello sul piano interno (e qui il federalismo viene piuttosto inteso nel significato di decentramento), consiste nel progressivo trasferimento di poteri "verso il basso", il che può avvenire in diverse maniere: la competenza può infatti essere totale o limitata a certi aspetti; riferirsi solo alle decisioni di spesa, alla determinazione di un particolare tributo o al coordinamento tra spesa ed entrata per particolari beni o servizi; avere carattere definitivo o essere revocabile, nel senso che in ogni momento il delegante potrebbe sostituirsi al delegato. In Italia questo movimento si è concretizzato in vicende alterne, anche in questo caso senza un disegno preciso. Alcuni aspetti significativi devono essere sottolineati, come ad esempio che al centro rimane la questione dell’attribuzione sulle competenze della spesa sanitaria, il cui completo trasferimento agli enti locali viene ritenuto da alcuni il cardine di un effettivo federalismo. Sintetizzando e inevitabilmente semplificando, si può dire che come a livello europeo l'elemento trainante è stato quello della moneta, sul piano interno al centro si pone la spesa sanitaria, il che ha avuto dei riflessi anche nella scelta del tributo che dovrebbe rappresentare il primo passo verso l'autonomia regionale, l'IRAP. La seconda circostanza caratterizzante è quella per cui il movimento verso il federalismo fiscale sia stato indotto in maniera decisa, potremmo esplicitamente dire costretto, dagli obblighi posti dall’altro movimento, quello verso l’alto; ciò è avvenuto con prescrizioni precise dell’Unione o attraverso provvedimenti indotti dagli impegni presi a livello sovranazionale. Tutto questo comporta un collegamento stretto tra i due aspetti del problema che stiamo discutendo.

Sia nei rapporti verso l'alto che verso il basso una cerniera di collegamento che dovrebbe garantire un certo equilibrio sarebbe costituita dal meccanismo dei così detti patti di stabilità i cui contenuti sono simili. In altri termini, il patto di stabilità interno tra regioni e governo servirebbe ad aiutare quest’ultimo nel proprio sforzo di mantenere l’impegno preso a livello sovranazionale, un modo per distribuire i costi del processo di integrazione.

Sussidiarietà e devolution

I due termini entrati nell’uso corrente per spiegare le motivazioni alla base di questi due movimenti, il modo in cui si determinano e l'eventuale equilibrio che garantiscono, sono quelli della sussidiarietà da un lato e della devolution dall’altro; entrambi, con involontaria ironia e certo inconsapevolmente, sono mutuati dalla filosofia della Chiesa cattolica.

a) sussidiarietà. Il concetto, se non il termine, di sussidiarietà, viene infatti elaborato nell’enciclica Quadragesimo anno, emanata nel 1931 dal Pontefice Pio XI, anche se la sua origine è ulteriormente dibattuta e riporta secondo alcuni al libro biblico dell’Esodo,quando Mosè all’uscita dall’Egitto stabilisce la struttura fondamentale basata sulla lega delle dodici tribù, una vicenda che si esaurisce con la centralizzazione nella forma monarchica. Secondo altri occorre risalire ad Aristotele e poi attraverso San Tommaso d’Acquino alla dottrina sociale della Chiesa. Infine, per altri ancora dev’essere ricondotta ad uno dei padri del giusnaturalismo, Giovanni Althusius, rappresentante di una impostazione che precorrerebbe quella dei moderni comunitari, e si contrappone alla tradizione che prende il via invece con Thomas Hobbes. Il riferimento ad Althusius sarebbe contenuto addirittura in un memorandum interno indirizzato a quello che era all'epoca il presidente della Commissione Jacques Delors, con riferimento all’interpretazione da dare al concetto di sussidiarietà contenuto nel Trattato di Maastricht; lo stesso Delors definisce il principio di sussidiarietà come quello per cui "decisions should be taken as near as possible to the point of application". In realtà quest’ultima definizione non sembra corrispondere completamente alla tradizione cui vuol formalmente fare riferimento, data la sua genericità. Uno dei punti centrali da sciogliere sembra essere quello di vedere se la sussidiarietà implichi anche il mantenimento della sovranità da parte dei soggetti che raggiungono l’accordo (quindi implichi la sua revocabilità) oppure sia compatibile anche con un contesto nel quale si considera che attraverso l’accordo stesso il trasferimento di sovranità divenga definitivo.

Diverse sono anche le idee riguardo l’effettivo contenuto ed il conseguente raggio d’azione del principio. Secondo alcuni costituirebbe soltanto un onere della prova in capo a chi voglia rivendicare gradi sempre maggiori di centralizzazione, mentre per altri questa concezione è riduttiva perché trascura l’esistenza di una serie di valori comuni da realizzare attraverso l’attuazione del principio di sussidiarietà. In una diversa impostazione, vicina a quest’ultima ma più rivolta ad aspetti procedurali relativi alla necessità di impedire il ruolo delle istituzioni sovraordinate a scapito di quelle inferiori, il principio di sussidiarietà da solo non fornirebbe sufficienti garanzie e dovrebbe essere rafforzato da previsioni ulteriori (es. fine del ruolo politico della Commissione, meccanismi di opting out ecc.).

Dal momento che l’enciclica citata viene ritenuta ancora il riferimento più sicuro, è opportuno farvi brevemente cenno. Il presupposto è quello del riconoscimento di un diritto naturale in capo agli individui, quello di non vedersi spogliati del loro potere di esercitare ogni attività che sono in grado di svolgere per trasferirla invece alla comunità. Questo assunto viene poi esteso per analogia anche alle organizzazioni, in base a considerazioni tanto di giustizia che di opportunità sociale;ordunque, dal momento che i legami sociali sono funzionali all’espressione delle capacità individuali, anche le organizzazioni minori non devono essere spogliate delle loro prerogative da altre più grandi fin tanto che sono in grado di assolvere ai propri compiti; in caso contrario sarebbe in ultima analisi lo stesso individuo a vedere compromessi i propri diritti. L’idea è che l’aumento delle dimensioni di un’associazione allontani l’individuo dal controllo tanto degli obiettivi che dei mezzi per raggiungerli, e quindi anche dall’usufruire dei possibili risultati; il sacrificio dell’autonomia è pertanto giustificato solo se quello è l’unico modo per raggiungere risultati che altrimenti verrebbero preclusi. Questa costruzione è alla base di una precisa concezione del federalismo che gli attribuisce il merito di garantire nel modo migliore il rispetto dei diritti individuali e la capacità di controllo nei confronti dell’autorità sovraordinata quando la necessità di quest’ultima dovesse presentarsi: sono molteplici i riferimenti possibili al riguardo ma ci si può limitare a citare l’economista e filosofo politico austriaco F.A. Hayek e lo storico cattolico inglese Lord Acton. Il meccanismo che si instaura attraverso l’introduzione del vincolo della sussidiarietà può essere interpretato come uno strumento di garanzia all’interno di quel tipo di rapporto che gli economisti e gli scienziati di teoria dell’organizzazione chiamano principal/agent relationship.I livelli inferiori di governo interpretano la parte del principal mentre quelli sovraordinati quella dell’agent, con la complicazione peraltro che dal punto di vista pratico nell’ambito federalista può determinarsi una confusione di ruoli per cui la funzione di principal viene spezzata ed attribuita a diversi soggetti e la questione che viene a porsi è di volta in volta se un certo potere viene esercitato autonomamente oppure in via delegata.In ogni modo, nell’ambito delle relazioni principal/agent è tipico l’inconveniente del possibile sovvertimento del rapporto di poteri e di ruoli, così che sia l’agent a finire per fissare obiettivi da perseguire e metodi da utilizzare. La sussidiarietà dovrebbe allora impedire tanto la confusione suddetta, che può essere favorita dalla scissione della sovranità, quanto il possibile sovvertimento dei ruoli.

Se così definito il principio di sussidiarietà assume un connotato sufficientemente preciso dal punto di vista della filosofia politica, ci si può domandare in quale modo esso si traduca in principio legale, come ciò sia avvenuto nel sistema europeo e se non abbia in qualche modo mutato fisionomia in tale passaggio. Come già accennato, il Trattato di Maastricht fa esplicito riferimento alla sussidiarietà come principio guida dell’Unione, tanto nel preambolo che all’interno del Trattato stesso ed utilizza una terminologia che appare in linea con quanto appena detto. Il problema nasce dal fatto che l’interpretazione riguardante la verifica dell’inesistenza dei presupposti in base ai quali i singoli Stati siano in grado di svolgere determinati compiti, e viceversa la dimostrazione che l’Unione sia meglio attrezzata a tali finalità, abbia finito per essere esercitata fondamentalmente dalla Corte di Giustizia Europea. In questo modo, però, si riduce di molto se non addirittura scompare quell’onere della prova che costituirebbe l’ostacolo decisivo da superare per spogliare di certi poteri i livelli di governo inferiori. Non ci sarebbe una differenziazione tra il soggetto che propone un maggiore accentramento e quello che deve decidere sulla legittimità di tale richiesta, detto in altri termini vi è identità tra una parte ed il giudice. Questa situazione è già di per sé peculiare, rispondendo ad un particolare tipo di processo, quello inquisitorio; risulta ulteriormente stridente in un contesto che si autodefinisce federale anche alla luce di un altro fattore che in questo modo viene a determinarsi, quello della sostanziale prevalenza del potere giudiziario rispetto agli altri poteri, una anomalia il cui possibile verificarsi non sembra così remoto, dal momento che il rischio che possa sorgere una situazione del genere era stato già notato nell’ambito del dibattito sul federalismo americano da James Madison. Più precisamente, nella concezione dei sostenitori originari del federalismo americano il ruolo del potere giudiziario era quello di impedire che gli altri due poteri, il legislativo e l’esecutivo, violassero il limite costituzionale (sostanziale) della competenza funzionale, nella nostra terminologia sovvertissero il contenuto del principio della sussidiarietà. Tutto cambia se invece il potere giudiziario si sostituisce a loro in quel compito. Sul punto torneremo tra breve; ciò che preme mettere adesso in rilievo è come questa anomalia cambierebbe il significato ristretto del concetto di sussidiarietà, quello cui abbiamo fatto in precedenza riferimento, portandolo in qualche modo a snaturarsi fino a farlo coincidere semplicemente con quello più generico di federalismo. La questione non è solamente terminologica; quell’anomalia costituirebbe infatti, detto in maniera diversa, il grimaldello attraverso il quale si effettua il rovesciamento di poteri tra principal ed agent sopra descritto; rafforzato dal potenziamento dei poteri elettivi, avrebbe pian piano trasferito il judicial endowment dal basso verso l’alto con la conseguenza che è il livello sovraordinato eventualmente a decidere di delegare alcuni poteri verso il basso. Senza un vincolo sostanziale, dunque, il federalismo si presenta come un sistema essenzialmente neutrale rispetto alla direzione verso la quale il potere si trasferisce (quindi anche con riferimento al problema dell’attribuzione dell’originario potere, con le conseguenze sui limiti e l’eventuale revocabilità dell’attribuzione); si può azzardare che si tratti di un sistema che soffre per propria natura di un equilibrio instabile.

Secondo un’ altra interpretazione, invece, il ruolo della Corte sarebbe stato di garanzia; non essendo quest’ultima condizionata politicamente, essa avrebbe agito quale antidoto contro i comportamenti strategici degli Stati membri, in concreto contro l’immobilismo "dettato degli egoismi nazionali" che avrebbe paralizzato il processo di integrazione in certe circostanze storiche. Sotto il profilo teorico pertanto la funzione della Corte dovrebbe essere considerata come un rimedio a situazioni patologiche, come la così detta "tirannide della minoranza", inconveniente dell’eccessivo decentramento, oppure atteggiamenti di free riding che si possono manifestare allorché la regola di decisione è quella all’unanimità.

Per riassumere si può quindi dire che il nucleo centrale del principio della sussidiarietà rimane quello della tutela dei diritti individuali e delle minoranze, ed in questo contesto trova un terreno comune con il concetto di federalismo, il quale ultimo sembra avere però un orizzonte più ampio. Le modifiche nei rapporti di potere in un contesto federale possono essere giustificate (e di solito finiscono per esserlo) ogni qual volta semplicemente rispettino certe regole procedurali; l’aspetto sostanziale, dunque, finisce in secondo piano fin quasi a sparire. Non è difficile concludere che nei nostri sistemi tale insieme di regole di procedura siano quelle democratiche, in termini semplificati regole di decisione prese a maggioranza. E' per questo motivo che le regole elettorali finiscono per avere un rilievo sempre crescente Se si pensa che il federalismo nella citata concezione accettata da Lord Acton, ad esempio, avrebbe una delle sue prerogative nel garantire un efficace controllo della democrazia, nel contrastare i suoi eccessi o la possibilità che si instauri una "tirannide della maggioranza", si può concludere che una certa tensione tra il principio di sussidiarietà e quello di federalismo possa sorgere. La vicenda della progressiva costruzione dell’Unione Europea con il suo anomalo federalismo rappresenterebbe bene questa diversità, dal momento che offre un esempio di come si possa determinare il passaggio da un modello ad un altro, pur mantenendo formalmente una certa omogeneità.Il ruolo iniziale della Corte in questa ottica sarebbe stato quindi fondamentale non in quanto contrapposto alle ragioni della politica, come per una certa interpretazione, ma in quanto avrebbe invece fornito il terreno preparatorio per la realizzazione di un potere politico centralizzato; sarebbe stato lo strumento di attuazione del passaggio da un modello decentrato ad uno centralizzato (o democratico federale) il che sarebbe confermato dal fatto che al crescere del potere del Parlamento e all’abbandono della regola dell’unanimità il ruolo della Corte si è ridimensionato nella sua incisività. Questa evoluzione dell'esperienza europea è sviluppato nel citato lavoro di Inman e Rubinfeld nel quale si distingue tra federalismo decentrato, centralizzato, e democratico utilizzando peraltro sussidiarietà e federalismo come sinonimi..

Un fenomeno analogo è stato notato però anche con riferimento all'esperienza americana nella quale la Corte avrebbe determinato il passaggio dall'originario modello di "decentramento costituzionale" ad uno di "decentramento contingente", nel quale ultimo è il Congresso a definire l'attribuzione dei poteri ai vari livelli di governo. La divisione verticale dei poteri, che avrebbe dovuto essere il completamento di quella orizzontale nel sistema di controllo costituzionale, viene soppiantata da un sistema dove è il governo centrale (che può nominalmente chiamarsi federale) a limitare se stesso.

b) devolution. E’ possibile adesso occuparsi brevemente dell’altro concetto di uso ricorrente, quello della devolution, non solo per cercare di attribuirgli un significato meno generico ma per accertare se esso si possa inserire nel processo in atto. Anche per questo termine è possibile fare ricorso alla tradizione cattolica.In questo caso la definizione è più precisa rispetto a quella di sussidiarietà. Essa deriva dal latino (devolutio) ed implica un movimento dall’alto al basso; in seguito il linguaggio legale ne ha specificato il significato nel senso del trasferimento di poteri. Nel diritto canonico faceva riferimento a circostanze particolari, quelle in cui un organo superiore viene legittimato a sostituirsi nell’esercizio di un certo potere all’organo inferiore che ne è il titolare.Ciò accade allorché vi sia da parte del titolare un’omissione nell’esercizio del potere dovuta a negligenza, oppure siano state violate le norme che regolano l’esercizio di quel potere. La devolutio costituisce pertanto un rimedio nei casi in cui si determini nei fatti un "vuoto" di potere. Si tratta di una sostituzione temporanea e circoscritta, tanto che giunti al vertice della piramide gerarchica, il papa, se anche in questo caso la devolutio non viene esercitata in certi termini, il potere torna integro al titolare originario che non ne viene comunque in alcun caso spogliato. Si può quindi considerare un principio complementare a quello della sussidiarietà. Si tratta, è vero, di un intervento dall’alto, ma ben circoscritto soprattutto per ciò che riguarda l’effettiva titolarità del potere.

Nei termini ristretti appena accennati evidentemente questo concetto sembra solo un lontano parente di quello che di recente ha assunto sempre maggiore popolarità nel linguaggio politico relativo al federalismo. La devolution viene infatti di solito intesa come un trasferimento di poteri dall’alto al basso, stabilito per concessione dall’autorità sovraordinata; nella versione più centralista tale trasferimento è sempre, almeno in teoria, modificabile e revocabile. Nonostante questa radicale diversità di prospettiva, a ben considerare l’origine del concetto può aiutare a svolgere alcune ulteriori riflessioni anche riguardo questo mutato contesto.

Facciamo una breve digressione.

Svincolando il concetto di federalismo da quello più ristretto di sussidiarietà lo si è articolato su due cardini. Innanzitutto la generica espressione "federalismo" non implica una presunzione sulla titolarità del potere originario in capo ad un certo livello di autorità: si presume titolare semplicemente chi esercita quel potere. Questo soggetto può decidere unilateralmente di trasferire quel potere in tutto o in parte, temporaneamente o definitivamente. In secondo luogo, e strettamente collegato con quanto appena detto, ciò che rileva nel meccanismo del trasferimento dei poteri è solo il rispetto di certe procedure formali.

La devolution in un contesto del genere può essere considerata come uno strumento, di voice all’inizio ma che in seguito può essere incorporata nel meccanismo formale di decisione, per riappropriarsi di un potere in origine attribuito da un soggetto (il titolare) ad un altro (ed è indifferente se si tratti di un movimento originariamente dall’alto o dal basso) qualora il delegato non abbia svolto il proprio compito nei tempi o nei modi pattuiti. Se si assume poi che il potere originario fosse in capo all’ autorità inferiore e sia stato attribuito ad una superiore per ovviare ad una situazione cui la prima non era in grado di far fronte, si può interpretare la devolution come un rimedio al successivo sconfinamento di poteri, o all’esaurimento nel tempo delle ragioni che giustificavano l’originaria attribuzione (non sarebbe quindi un caso che i maggiori fautori della devolution siano in origine delle regioni che solo circa un secolo fa avevano un parlamento proprio come è il caso della Scozia). In questo senso potrebbe essere ancora considerato come uno strumento di ricostituzione del principio violato della sussidiarietà.

L’utilizzo del concetto nel senso di antidoto a qualche anomalia del processo federalista può essere inserito in un contesto più ampio.

Secondo un’interpretazione, particolarmente consona all'approccio di public choice, la delega di poteri da parte degli enti inferiori ad un potere superiore potrebbe essere una strategia utilizzata per rendere efficace una specie di "cartello politico" che eviti quella concorrenza che sarebbe il vantaggio più rilevante del sistema di decentramento, rafforzando il ruolo dei politici ed in particolare dell'esecutivo. Torna a questo proposito il problema delle decisioni di secondo ordine al quale si è fatto riferimento all’inizio dell’articolo. Si può, inoltre, utilizzare un'analogia di mercato ed in particolare quella con certe pratiche che appaiono come imposte dall'alto ma in realtà possono essere volute dai rivenditori per rendere efficace un accordo tra di loro, un esempio delle quali è certamente quella della così detta resale price maintenance.

Con specifico riferimento alla vicenda europea il punto è stato rilevato già tempo fa con riferimento alla CEE allorché ci si è accorti di come gli Stati membri facessero ricorso alla comunità al fine di aggirare un’opposizione interna al perseguimento di certi obiettivi. Il fenomeno si sarebbe confermato e consolidato in epoca post- Maastricht; secondo alcuni l’Unione permetterebbe lo sviluppo di un gioco nel quale i singoli Stati massimizzano i propri obiettivi socializzando i costi (europeizzandoli).

Un'ottica analoga è stata applicata all’intero processo di globalizzazione, il trasferimento di poteri avrebbe in parte indebolito il ruolo dello Stato, almeno nei rapporti internazionali, ma gli avrebbe permesso di sottrarsi a dei vincoli altrimenti presenti alla sua azione interna. In questo contesto analitico il potere dello Stato nazionale viene rafforzato nel senso che se dall'alto (e qui si può intendere tanto l'azione di uno Stato federale quale può essere considerata ad esempio l'UE, quanto l'azione di organizzazioni internazionali e perfino, secondo alcuni, quella impersonale del mercato) vengono fissati degli obiettivi che devono essere perseguiti anche sul piano interno, in questa azione esecutiva il controllo stesso dal basso viene ridotto se non eliminato. La questione può essere affrontata anche prendendo in considerazione i rapporti tra lo Stato nazionale e gli enti locali. Per limitarsi al caso italiano, è indiscutibile che si sia verificato di recente (soprattutto considerando l’arco temporale 1996-’99) un aumento delle entrate proprie degli enti locali a fronte di una riduzione dei trasferimenti da parte del governo centrale, il che testimonierebbe un deciso aumento degli spazi di autonomia. Corrispondentemente, l’aumento dell’autonomia si accompagnerebbe ad una riduzione dei poteri effettivi delle autorità locali, dati i vincoli di bilancio da rispettare all’interno del patto di stabilità. Ciò può determinare da un lato una conseguenza virtuosa, la fine dell’eccessiva e irresponsabile crescita della spesa locale che era sostanzialmente non sottoposta a vincolo di bilancio grazie al sistema del così detto piè di lista. Al tempo stesso, può determinare delle conseguenze di segno diverso. In particolare può contribuire a creare una variante di quelle che Amilcare Puviani chiamerebbe "illusioni finanziarie", nel senso che renderebbe responsabili gli enti locali di un sistema nel quale il volume di spesa si riduce di fronte ad un livello della pressione fiscale che rimane invariato. C’è in sostanza una traslazione delle conseguenze di certe decisioni dal centro alla periferia laddove il potere di prendere tali decisioni ancorché in maniera indiretta rimane incardinato al centro. In questo modo gli enti locali vengono sottoposti di fatto ad un controllo maggiore da parte del potere centrale. Un esempio può essere trovato nel sistema delle addizionali all’imposta personale sulle persone giuridiche. In tal modo, infatti, si rende più difficile realizzare la richiesta di una riduzione della complessiva pressione fiscale.

Da tutto questo deriva un "paradosso del potere statale", costituirebbe pertanto un effetto perverso della maggiore integrazione.

In entrambe queste ipotesi il concetto di devolution può essere utilizzato nel significato di una reazione: nella prima ipotesi contro il tentativo di sottrarsi alla concorrenza tra istituzioni, nella seconda ipotesi contro il tentativo di sottrarsi ai compiti propri del primo livello di governo come agent nel suo tentativo di diventare invece principal soppiantando in tale ruolo la comunità inferiore (e trasferendo ovviamente in questo caso il compito di agent ad un organismo ancora superiore)

L’opzione di exit

E' opportuno adesso fare cenno ad un punto ulteriore. Se il federalismo viene inteso in senso stretto in relazione alla sua origine terminologica (dal latino foedus) quindi ne viene sottolineata la natura pattizia e volontaria, allora sembra verosimile concepire quello stesso contratto come reversibile. Tutto ciò sembra rafforzato nella concezione che vede l'opzione federalista come strumento per ottenere una maggiore efficienza attraverso la competizione istituzionale rispetto ad un sistema monopolistico. Una delle caratteristiche del sistema concorrenziale è, come noto, l'assenza di barriere tanto all'ingresso che all'uscita; la minaccia di uscita, l'esercizio di quella che Hirschmann chiama opzione di exit appunto, è strumentale al buon funzionamento del meccanismo. Ciò sotto il piano pratico porterebbe a concludere per la necessità di inserire nel contratto sociale una previsione relativa al diritto di secessione per i membri di un'unione federalista. La proposta esplicita si trova in un lavoro di James Buchanan secondo il quale un diritto del genere sarebbe stato parte di un contratto implicito intrinsecamente collegato a quello esplicito che contiene l’atto di formazione dell’accordo costituzionale nel 1787 in America: senza quella parte implicita l’accordo non sarebbe stato raggiunto; non solo, ma la Guerra di Secessione sarebbe nata in seguito alla violazione da parte degli unionisti di quella norma implicita. Che questa interpretazione sia corretta sotto il profilo dell’esegesi storica non è in questa sede rilevante; piuttosto interessa l’inserimento della clausola di secessione nell’ambito delle regole di definizione appropriata del disegno federalista, perché la soluzione della questione dipende ovviamente dalla concezione che si abbia sulla titolarità della sovranità in seguito all’atto di federazione.

Occorre in ogni caso precisare come possano essere distinte due funzioni della clausola: quella che opera nel momento della formazione dell’accordo che dà vita alla federazione, e quella che si attiva in un momento post-contrattuale. Nella prima ipotesi il ruolo svolto sarebbe quello di permettere il raggiungimento di un accordo ottimale, traducendo nella pratica la funzione assolta nei modelli teorici dal velo dell’ignoranza di tipo rawlsiano. Incidentalmente, si può notare come l’utilizzo della logica del maximin in questo contesto potrebbe portare alla conclusione di un patto federale naturalmente garantista per gli enti inferiori, che richieda sempre la verifica che il trasferimento di poteri verso l'alto non danneggi la comunità più debole, una versione comunque rigida della sussidiarietà. Ad ogni modo, la questione più importante sotto il profilo sia teorico che pratico è quella della clausola post-contrattuale che costituirebbe un vincolo procedurale che secondo i suoi sostenitori dovrebbe funzionare in maniera migliore del vincolo sostanziale; la competenza di far rispettare quest’ultimo è infatti attribuita alla Corte federale il cui comportamento sarebbe però "politicizzabile". Ciò non dipende solo dalla particolare struttura istituzionale americana, con giudici eletti e il bilancio della Corte Suprema controllato dal Congresso, ma anche e più in generale dalla tendenza del potere legislativo ad appropriarsi di un numero sempre maggiore di competenze e dalla capacità di aggirare i vincoli costituzionali. Le differenti modalità che può assumere la clausola di secessione non riguardano solo il momento nel quale può essere attivata ma anche il suo contenuto e l'attribuzione della titolarità del potere. Nel primo caso una versione affievolita può essere quella della possibilità da parte di una minoranza qualificata di annullare le decisioni del governo sovraordinato. Per il primo, invece, una differenza può determinarsi in base alla regola che governa l'exit la quale può assumere la configurazione della scelta a maggioranza semplice oppure qualificata, in quest'ultima ipotesi assimilando la regola a quella che disciplina un mutamento di tipo costituzionale. Per il secondo aspetto si può ipotizzare che titolare sia esclusivamente lo Stato membro oppure un gruppo substatale (una regione come il caso della Groenlandia cui si farà cenno in seguito) o anche ipoteticamente transnazionale (un consorzio di regioni).Sul piano teorico si è proposto di determinare una soglia numerica di abitanti che costituisca la dimensione minima per la secessione , la quale si attua attraverso una votazione a maggioranza Anche in questo campo possiamo distinguere due atteggiamenti diversi in relazione al concetto di federalismo. Il primo che si fonda sull'idea della concorrenza istituzionale dovrebbe richiedere perfetta simmetria tra regola di entrata e di uscita: la procedura dovrebbe essere in entrambi i casi la stessa in modo da non determinare delle barriere in un senso o nell'altro. Il secondo è più strettamente legato all'idea della sussidiarietà. L'idea di partenza è quella della presunzione a favore della comunità più piccola così che la regola di uscita deve essere meno restrittiva di quella relativa all'entrata dal momento che in quest'ultimo caso si attua una rinuncia a poteri propri che dovrebbe richiedere un maggioranza qualificata, mentre nel primo caso si assiste semplicemente ad una riappropriazione dell'esercizio dei diritti originari. Di solito quest'ultima impostazione viene collegata strettamente ad una concezione maggiormente individualistica, ed il riferimento alla sussidiarietà, con quanto detto in precedenza, dovrebbe confermare tale impressione; va peraltro detto che il rispetto delle libertà individuali in un contesto del genere non pare sia garantito semplicemente dalla presunzione di sussidiarietà ma richiederebbe un completamento costituzionale.

Sotto il profilo istituzionale si nota di solito l'esistenza di un'asimmetria tra condizioni di entrata ed uscita, il che potrebbe contribuire a spiegare la scarsità di richiesta di secessione a fronte quelle relative ad altre forme di autonomia. Secondo una spiegazione di tipo teoria dei giochi, in realtà la minaccia di secessione può servire per ottenere altri obiettivi, può costituire semplicemente un comportamento strategico,cui si contrapporrebbe una minaccia di ritorsioni da parte del governo centrale che può incidere sulla componente variabile dei costi stessi della separazionescoraggiandola: il gioco finirebbe solamente per determinare una redistribuzione tra attribuzioni all’interno di una entità la cui dimensione rimane nel suo complesso invariata. Secondo un’altra impostazione vi sarebbe comunque una serie di costi sia fissi che variabili per entrambe le parti che rendono difficile la separazione.

In ogni caso, appare evidente come anche nell'UE esista un’asimmetria tra condizioni di entrata e di uscita. La procedura di entrata benché macchinosa sotto il profilo burocratico non si basa su requisiti molto stringenti: il candidato dev'essere uno Stato europeo (art.0, titolo VII, Disposizioni Finali, Trattato di Maastricht, 1993), ma la qualifica di europeo è valutata in maniera molto discrezionale (la candidatura del Marocco ne è un esempio); deve avere un regime democratico; deve dimostrare la seria intenzione a partecipare all'Unione. Non c'è previsione per l'uscita, ma un caso si è registrato, quello della Groenlandia. Va precisato comunque che ciò è avvenuto nel 1985, cioè prima della creazione della moneta unica quando una porzione così rilevante della sovranità nazionale non era ancora stata trasferita "verso l'alto". Si tratta inoltre di una regione di uno Stato membro, la Danimarca, che attribuì autonomia in un primo momento ed acconsentì all'uscita della regione in seguito ad un referendum locale e ad una richiesta al governo danese da parte del parlamento locale senza che quest'ultimo avesse in ogni caso il potere decisionale in tal senso ma solo consultivo.

Il caso può essere interpretato in modi molto diversi, come un evento irrilevante o come un precedente significativo. Comunque sia, il punto fondamentale sembra essere quello del valore attribuito al trasferimento della sovranità. Lo stesso punto, non a caso, era sorto nel dibattito relativo alla nascita degli Stati Uniti d'America. In quel contesto prevalse la tesi secondo la quale l'accordo cambia definitivamente le relazioni tra i membri portando alla costituzione di un organismo di natura diversa rispetto alla semplice somma delle parti. La tesi prevalente, detto altrimenti, è di tipo hobbesiano: solo la rinuncia alla sovranità permette di raggiungere gli obiettivi dell'unione. Evidentemente la tesi opposta vede in quell'irrevocabilità un inutile aggravio dei termini del contratto.

Conclusioni

Il ricorso al concetto di sussidiarietà si potrebbe giustificare, a meno di non attribuirgli solo il valore di un richiamo puramente formale, quale vincolo sostanziale che delimita le diverse possibilità di trasferimento di poteri, un vincolo che si aggiunge a quello del rispetto della procedura formale (votazione). Potrebbe essere considerato in questo senso quale vincolo costituzionale ed inserito (e specificato) formalmente in una Costituzione, o agire come confine implicito, anche se in quest'ultimo ruolo la sua capacità sembra essere ridotta. La devolution può essere inserita in questo contesto quale possibile correttivo alla violazione del patto iniziale. Al di fuori di questo contesto, mancando una presunzione sulla titolarità sostanziale del potere, la coppia sussidiarietà/devolution si riferirebbe solo alla direzione verso la quale avviene il trasferimento di poteri stesso. Mentre nel primo caso la relazione è sempre unidirezionale, dal basso verso l'alto, nel secondo è simmetrica, e ciò si concilia con l'approccio di teoria economica neoclassico e sotto il profilo filosofico-politico con quella che si potrebbe definire concezione ultrademocratica.

La questione dei criteri in base ai quali definire le relazioni tra i diversi livelli di governo porta a considerare anche il possibile ruolo dei meccanismi di exit. In questo caso l'equilibrio tra i poteri è affidato ad un meccanismo che applica il principio concorrenziale anche alle istituzioni e non solo alla produzione ed allo scambio.

Sembra che si possa dire, giunti a questo punto, che l'introduzione del concetto di concorrenza nell'ambito dello studio dei problemi del federalismo abbia assunto connotati molto diversi, ed abbia messo in luce almeno tre diverse impostazioni concettuali:

  • nella versione più radicale si applica anche agli Stati rispetto alla federazione, più in generale agli enti inferiori rispetto a quello sovraordinato: ciò rende necessaria la previsione di meccanismi del tipo del diritto di secessione e la simmetria tra condizioni di entrata ed uscita. Il meccanismo di exit si attua qui attraverso la votazione, e le regole che si applicano evidentemente determinano il suo funzionamento (nel caso della Groenlandia la semplice maggioranza è stata ritenuta da alcuni eccessivamente lassista). Per proseguire nell’analogia con il funzionamento del mercato ci si può chiedere quanto l’adesione iniziale possa essere considerata alla stregua di un sunk cost ed in tal senso incida sull’efficienza del meccanismo. E’ il problema della compresenza di commitment ed exit che servono a far funzionare un sistema di tipo contrattual-volontaristico ma possono creare vischiosità ed occasioni di comportamento opportunistico.
  • in una versione che potremmo definire intermedia si applica solo ad alcuni profili legislativi: i membri si fanno concorrenza tra di loro attraverso le condizioni che offrono: il meccanismo di exit si attua qui attraverso il voting with one's feet a la Tiebout , la mobilità dei capitali e delle merci. Le dimensioni complessive dell’istituzione rimangono invariate o possono accrescersi.
  • nella versione più "centralista" la concorrenza è di tipo esclusivamente economico e non istituzionale perché si tende ad una progressiva uniformità della struttura fiscale, un quadro di regole uguali all’interno delle quali svolgere l’attività economica. L’obiettivo sarebbe quello della neutralità (la critica di questa impostazione si indirizza proprio a contestare l’assunto per cui la non discriminazione implichi uniformità di tassazione).

  • NOTE

    1 Sunstein C.R., Ullman-Margalit E., 1998, "Second-order Decisions", John M. Olin Law & Economics Working Paper no.57.

    2 sulla necessità di integrazione delle considerazioni di pura teoria economica v. Musgrave R.A., Musgrave P.B., 1989, "Public Finance in Theory and Practice", 5th ed., New York: MacGraw-Hill, p. 458.

    3 Oates W.E., 1972, "Fiscal Federalism", New York: Harcourt Brace Jovanovich.

    4 Lowenberg A.D., Yu B.T., 1992, "Efficient Constitution Formation and Maintenance: the Role of Exit", Constitutional Political Economy, vol.3, n.1, pp.51-72.

    5 Johansen L., 1965, "Public Economics", Amsterdam: North Holland, pp.14-16, e 150-151.

    6 Parzialmente diversi sotto questo profilo i lavori di Buchanan e Tiebout, soprattutto quest’ultimo.

    7 Shoup C., 1969, "Public Finance", Chicago: Aldine, p. 634.

    8 Demsetz H., 1969, "Information and Efficiency: Another Viewpoint", in "Efficiency, Competition and Policy", 1989, Oxford: Blackwell.

    9 Conlan T., 1988, "New Federalism", Washington D.C.: The Brookings Institution, p.3.

    10 Elazar D.J., 1995, "Idee e Forme del Federalismo", Milano: Edizioni di Comunità, pp.186-187.

    11 Earle V. (ed.), 1964, "Federalism: Infinite Variety in Theory and Practice", Itaca, Ill.:Peacock.

    12 Wildasin D.E., 1997, "Fiscal Aspects of Evolving Federations:Issues for Policy and Research", in Wildasin D.E. ed. "Fiscal Aspects of Evolving Federations", Cambridge UK: Cambridge University Press.

    13 Popper K.R., 1973, "La Società Aperta e i suoi Nemici", Roma: Armando.

    14 Il punto è ben sviluppato in Inman R.P., Rubinfeld D. L., 1998, "Subsidiarity and the European Union", NBER working paper 6556n

    15 Il corsivo è nostro.

    16 Trattato sull’Unione Europea, Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee, C224, 35° anno, 31-8-1992.

    17 European Councils di Birmingham ed Edimburgo entrambi tenutisi nel 1992.

    18 Hirschmann A. O., 1970, "Exit, Voice and Loyalty", Cambridge, Mass: Harvard University Press, p.30ssgg.

    19 Mill J.S., 1991, "Considerations on Representative Government", Buffalo, N.Y.: Prometheus Books, p.320 ssgg.; la centralità della sicurezza si trova anche alla base del federalismo americano v. The Federalist, n.3.

    20 Padoa-Schioppa T., 1987, "Efficienza, Stabilità ed Equità", Bologna: Il Mulino.

    21 Musgrave R.A., 1959, "The Theory of Public Finance", New York: MacGraw-Hill.

    22 1 Samuele, 8: 11-18.

    23 Rhonheimer M., 1997, "La Filosofia Politica di Thomas Hobbes", Roma: Armando, p. 19, nota 16.

    24 Il cui "De Cive" era una critica al diritto di resistenza propugnato tra gli altri da Althusius.

    25 Hueglin T., 1994, "Federalism, Subsidiarity and the European Tradition", in "Federalism, Subsidiarity and Democracy in the European Union",2nd ECSA World Conference, Brussels, European Parliament, 5-6, maggio, 1994.

    26 Dichiarazione del 1 dicembre 1989.

    27 Non è qui il luogo per sviluppare il tema ma l’importanza determinante della questione si può rivenire nel dibattito sull’origine e la titolarità della sovranità che contrappone la concezione gesuita di Bellarmino e Suarez a quella di Hobbes, v. De Jouvenel B., 1977, "Del potere. Storia Naturale della sua Crescita", Milano: SugarCo, pp.45-46.

    28 Sinn H.-W., 1994, „How Much Europe? Subsidiarity, Centralization and Fiscal Competition", Scottish Journal of Political Economy, vol.41, n.1, pp.85-107.

    28 "Subsidiarity", World Bank Institute, Constitutional and Legal Framework and Guidelines, http://www.1.worldbank.org/wiep/decentralization/Topic03.2.htm.

    29 Vibert F., 1990, "The Powers of the European Parliament", in Buchanan J.M., Pohl O., Curzon Price V., Vibert F. eds., "Europe’s Constitutional Future", London: Institute of Economic Affairs, p.119.

    30 Hayek F.A., 1990, "The Constitution of Liberty", London: Routledge.

    31 Lord Acton, 1985 [1907], "The History of Freedom in Antiquity", in "Essays in the History of Liberty", Indianapolis: Liberty Classicis.

    32 Coglianese C., Nicolaidis K., 1997, "Securing Subsidiarity: Legitimacy and the Allocation of Governing Authority", working paper, Policy Research Group,John F. Kennedy School of Government, Harvard University.

    33 La discussione classica della regola dell’unanimità si trova in Wicksell K.,1896, "A New Principle of Just Taxation" in Musgrave R.A., Peacock A.T. (eds.), 1958,"Classics in the Theory of Public Finance", London:MacMillan & Co.; per una differenza del free riding in questo contesto rispetto a quello tradizionale della teoria dei beni pubblici v.

    Buchanan J.M., 1987, "Public Finance in Democratic Process", Chapel Hill: The University of North Carolina Press,pp.286-287.

    34 Puviani A., 1973 [1903], "Teoria della Illusione Finanziaria", Milano: ISEDI.

    35 Op. cit. p.21.

    36 Romani F., 1992, "L’Unificazione Economica", in La Pergola A., Romano S., Romani F., Fisichella D., Golini A. Prini P., "L’Europa Domani: Realtà e Prospettive", L’Aquila: Japadre.

    37 Aranson P.H., 1990, "Federalism: the Reasons of Rules", Cato Journal, vol. 10, n.1, pp.17-38.

    38 Dorn J.A., 1990, "Federalism and the Economic Order", Cato Journal, vol.10, n.1, pp. 1-15 .

    39 Fanning H.W., 1908, "Devolution", The Catholic Encyclopedia vol. IV.

    40 Eichenberger R., 1994, "The Benefits of Federalism and the Risk of Overcentralization", Kyklos, vol.47, Fasc.3, pp. 403-420, v. p. 413.

    41 Vaubel R., 1986, "A Public Choice Approach to International Organization", Public Choice, 51, pp.39-57.

    42 Streit M.E., Mussler W., 1994, „The Economic Constitution of the European Community", Constitutional Political Economy, vol.5, n.3, pp. 319-353, p.336.

    43 Phillips N., 1998, "Globalisation and the ‘Paradox of State Power’: Perspectives from Latin America", CSGR working paper, n.16/98.

    44 Puviani A., 1973 [1903], "Teoria della Illusione Finanziaria", Milano: ISEDI.

    45 Buchanan J.M., 1990, "Europe’s Constitutional Opportunity", in Buchanan J.M., Pohl K.O., Curzon Price V., Vibert F., eds., op. cit.

    46 E questi erano in effetti i termini del dibattito che ha preceduto la guerra di secessionei cui maggiori esponenti erano J.C. Calhoun e D. Webster, v. Lord Acton, 1866, "The Civil War in America: Its Place in History", in Lord Acton 1985, op. cit.

    47 Landes W.M., Posner R.A., "The Independent Judiciary in an Interest-Group Perspective", Journal of Law and Economics, 18, pp.875-901.

    48 Wagner R.E., Gwartney J.D., 1988, "Public Choice and Constitutional Order", in Gwartney J.D., Wagner R.E.,eds."Public Choice and Constitutional Economics", London:JAI Press.

    49 Niskanen W.A., 1978, "The Prospect for Liberal Democracy", in Buchanan J.M., Wagner R.E. eds. , "Fiscal Responsibility in Constitutional Democracy", Leiden: Martinus Nijhoff.

    50 Bernholz P., 1992, "Constitutional Aspects of the European Integration", in Borner S., Grubel H. eds., "The European Community after 1992. Perspectives from the Outside", London: The Macmillan Press, p.55.

    51 Apolte T., 1997, "Secession Clauses: a Tool for the Taming of an Arising Leviathan in Brussels", Constitutional Political Economy, 8, pp.57-70.

    52 Young R.A., 1994, "The Political Economy of Secession", Constitutional Political Economy, vol.5, n.2, pp.221-243.

    53 Nash M.L., 1997, "The European Union and Secession", Contemporary Review.

    54 Stigliz J.E., 1978, "Principal and Agent (ii)", su "The New Palgrave", Eatwell J., Milgate M., Newman P. eds., London: MacMillan.